Oggi si celebrerà il 150° anniversario della unità d'Italia, anniversario della firma decreto che sanciva la nascita del Regno d'Italia.
Qualcuno non gradisce. I leghisti odiano l'idea di un'Italia unita e dimenticano che il nucleo più consistente dei garibaldini partiti da Genova erano bresciani e bergamaschi. Ma anche al sud c'è chi non ama l'unificazione. I neoborbonici credono che il regno delle Due Sicilie era una sorta di paradiso economico, trasformato in purgatorio se non proprio in inferno dai Savoia e dai governi dell'Italia unità.
Valerio Castronovo è un celebre storico italiano. Nel libro L'industria italiana dall'Ottocento a oggi (Mondadori, 1980) ci sono informazioni sufficienti a capire se il sud era l'isola felice descritta da alcuni neo-borbonici. Ne riporto alcuni passi perchè chi lo desidera si possa fare un'idea di cos'era davvero il sud al tempo dell'unificazione del paese.
"La più alta percentuale di popolazione dedita all'industria rispetto al resto del paese, che alcune statistiche attrinuivano al Mezzogiorno al momento dell'Unità, potrebbe generare false impressioni. In realtà l'economia meridionale accusava fin dalla prima metà del secolo accentuati sintomi di debolezza e ristagno. I motivi ..vanno ascritti alle condizioni particolarmente arretrate dell'agricoltura, gravata dalla sopravvivenza di estesi latifondi... nè le campagne meridionali avevano conosciuto lo sviluppo di grandi operre di bonifica, dissodamento e di sistemazione idraulica, come era avvenuto in val padana e in alcune zone della Toscana".
"Non si era avuto al Sud un processo reale di trasformazione economica e sociale... i nuovi ceti emergenti erano non meno riluttanti ... a incrementare gli investimenti e a modificare i vecchi contratti di colonìa ... fondati sullo sfruttamento oppressivo dei contadini."
"La sopravvivenza di un'oligarchia poco incline a ...rinnovare le tecniche di lavorazione agì da freno anche per lo sviluppo di altre attività economiche ... [perpetuando] il carattere eminentemente speculativo del sistema creditizio e del commercio agricolo, monopolizzati da gruppi d'affaristi le cui operazioni [vettovagliamento truppe e appalto di monopoli dello Stato] gravavano pesantemente sulle finanze pubbliche e sottraevano risorse ai settori più dinamici".
"In questa situazione ... l'attività industriale aveva presto assunto risvolti speculativi. Ciò valeva in particolare per l'industria cotoniera... i progressi nella coltivazione del cotone.. avevano indotto alcuni commercianti svizzeri a stabilire varie manifatture [in alcune zone della Campania], protetti dopo la Restaurazione dal governo borbonico, che aveva loro accordato un inasprimento delle tariffe doganali... ma le loro iniziative non avevano fatto da battistrada a una più ampia diffusione diffusione dell'industria tessile. Il monopolio sul mercato interno e altri privilegi di cui godevano le società svizzere avevano scoraggiato ulterori investimenti nella lavorazione del cotone...Scarsi rimasero i rapporti fra l'industria tessile [i macchinari arrivavano dall'estero e sfruttavano il basso costo del lavoro per esportare i prodotti all'estero]"
"L'industria meccanica [è] cresciuta in gran parte non tanto sulla base di investimenti privati, quanto sulla protezione e sui contratti sottoscritti dal governo. Nel 1860 l'officina di Pietrarsa era seconda per entità solo a quella di Sampierdarena...tuttavia in un periodo in cui in Liguria, Piemonte e Lombardia il protezionismo doganale non sorreggeva più da tempo le fortune di officine meccaniche e di costruzioni marittime, a Napoli l'industria meccanica continuava a vivere esclusivamente grazie ai pesanti dazi stabiliti sui prodotti esteri."
"Malgrado le sue dimensioni, essa non fu in grado di generare nuova domanda o di promuovere tutt'intorno un tessuto connettivo di nuove imprese sussidiarie".